14 Aprile 2025
Gatekeeping e Dissenso: Come il potere seleziona chi può parlare
Questo meccanismo seleziona quali voci femministe, politiche e culturali possono essere legittimate e quali, invece, devono essere marginalizzate, quando non direttamente silenziate.

Di Maddalena Celano
Nel panorama della comunicazione pubblica contemporanea, il gatekeeping — cioè il controllo su chi può accedere agli spazi di visibilità mediatica e istituzionale — agisce come un filtro ideologico potente e spesso invisibile. Questo meccanismo seleziona quali voci femministe, politiche e culturali possono essere legittimate e quali, invece, devono essere marginalizzate, quando non direttamente silenziate. La posta in gioco non è soltanto mediatica, ma politica: riguarda la possibilità stessa di immaginare un cambiamento radicale.
Femminismo “pop” vs Femminismo radicale
Nel campo femminista, si osserva una chiara visibilità selettiva: le figure che propongono un linguaggio inclusivo, “positivo” e compatibile con il sistema dominante — come le popstar dichiaratamente femministe o le influencer impegnate — ottengono spazio, copertura e approvazione. Invece, le posizioni che sfidano realmente le gerarchie sociali, economiche e simboliche vengono trattate come “troppo estreme”, “divisive” o addirittura “retrive”.
In questa zona d’ombra troviamo le femministe abolizioniste, come Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin, che denunciano il sistema prostituente e l’industria pornografica non come semplici “scelte individuali”, ma come istituzioni patriarcali e capitaliste che normalizzano lo sfruttamento del corpo femminile. E troviamo anche le voci del femminismo comunitario latinoamericano, come quella della boliviana Andrea Guzmán, che analizzano la subordinazione femminile all’interno di una visione decoloniale, collettiva e radicata nei territori e nelle lotte indigene.
Un filo rosso: corpo, territorio, sovranità
Il punto di contatto tra queste prospettive è potente: il corpo femminile, come il territorio, è un campo di colonizzazione. Per Guzmán, la logica patriarcale che opprime le donne indigene è inseparabile da quella coloniale e neoliberale che saccheggia la terra. Allo stesso modo, per le abolizioniste, la prostituzione e la pornografia sono strumenti sistemici attraverso cui il corpo femminile viene sottomesso alla logica di mercato, ridotto a merce, svuotato di soggettività.
Entrambe queste prospettive rifiutano l’idea che la libertà femminile possa essere ridotta al consumo o all’individualismo. E proprio per questo risultano scomode. Non si limitano a chiedere parità nel mondo così com’è, ma ne mettono in discussione le fondamenta: la logica estrattiva, il patriarcato neoliberale, la falsa neutralità del diritto occidentale, la complicità tra capitalismo e violenza.
Il gatekeeping favorisce l’ atlantismo
Il gatekeeping agisce anche a livello geopolitico, alimentando un femminismo compatibile con l’agenda atlantista: quello che promuove i “diritti delle donne” nei paesi da invadere, sanzionare o destabilizzare — si pensi al caso dell’Afghanistan, dell’Iran o del Venezuela — ma che tace sul traffico internazionale di donne nei paesi NATO, sull’impunità dei clienti e sulla normalizzazione della mercificazione sessuale in Occidente.
Le posizioni abolizioniste e comunitarie rappresentano una minaccia a questa narrazione ipocrita. Rivelano che l’industria del sesso e la tratta non sono aberrazioni isolate, ma tessere fondamentali del sistema capitalista globale, che ha bisogno di corpi da sfruttare e terre da occupare. Così come la prostituzione è funzionale alla disuguaglianza di genere, la dottrina atlantista è funzionale alla disuguaglianza globale. Entrambe si fondano sullo stesso principio: la disponibilità illimitata dell’altro.
Il costo della coerenza
Proprio per la loro coerenza politica, voci come quella di Andrea Guzmán o delle femministe abolizioniste sono sistematicamente escluse dai grandi circuiti mediatici, accademici e istituzionali. Non solo perché troppo radicali, ma perché inconciliabili con l’ordine del discorso dominante, che vuole un femminismo individualista, imprenditoriale, magari sessualmente trasgressivo, ma mai strutturalmente critico.
Eppure, in questa marginalità si cela una forza profonda. Il femminismo che tiene insieme lotta contro il patriarcato, decolonizzazione e giustizia sociale non cerca di adattarsi allo status quo: lo combatte, lo sfida, lo reinventa. Le sue parole, anche se ignorate, preparano il terreno per un’altra narrazione, più giusta, più collettiva, più libera.
Il gatekeeping, pur giustificato a volte come argine alla polarizzazione, è in realtà una strategia di mantenimento dell’ordine esistente. Oscura le voci che rivelano le contraddizioni del sistema. Ma quelle stesse voci — dal femminismo abolizionista di MacKinnon e Dworkin, a quello comunitario di Guzmán, ai movimenti contro la guerra e la tratta — sono anche luoghi di resistenza e rinascita.
Riconoscere e dare spazio a queste prospettive significa liberare il femminismo, la geopolitica e la cultura dalle maglie del consenso preconfezionato. Solo così il pensiero critico potrà davvero trasformare il mondo, invece di limitarsi a decorarlo
