01 Settembre 2025
Quel gigante atrofizzato chiamato Europa
La fine dell’estate porta con sé i soliti segnali inquietanti dei profeti di sventura dell’epoca moderna: sui mercati finanziari circolano con sempre più insistenza ipotesi di possibili interventi del Fondo monetario internazionale per salvare le economie di Regno Unito e Francia, segno di un clima in cui il declino europeo non è più soltanto uno tormentone da talk show ma una condizione evidente.

di Alessandro Andrea Argeri
La fine dell’estate porta con sé i soliti segnali inquietanti dei profeti di sventura dell’epoca moderna: sui mercati finanziari circolano con sempre più insistenza ipotesi di possibili interventi del Fondo monetario internazionale per salvare le economie di Regno Unito e Francia, segno di un clima in cui il declino europeo non è più soltanto uno tormentone da talk show ma una condizione evidente.
Se già nel 1976 il governo britannico dovette bussare alla porta del FMI, oggi alcuni economisti britannici avvertono che lo scenario potrebbe ripetersi, mentre dall’altra parte della Manica il ministro dell’Economia francese Eric Lombard ha ammesso che anche Parigi potrebbe trovarsi costretta a chiedere aiuto. Queste dichiarazioni, seppur forse tattiche, rivelano la fragilità crescente delle due principali economie europee dopo la Germania.
Il problema però è un altro: Gran Bretagna e Francia sono troppo grandi per essere salvate. Il debito pubblico britannico sfiora infatti i 2,8 trilioni di sterline, mentre quello francese i 2,7 trilioni di euro, cifre ingestibili rispetto alla capacità di prestito del FMI, che si aggira attorno ai 1.000 miliardi di dollari. In realtà, più che un problema di liquidità immediata, Parigi e Londra si scontrano con una questione di sostenibilità: l’enorme peso delle spese future, soprattutto pensioni e welfare, rispetto a una crescita economica sempre più modesta.
L’Europa intera riflette questa dinamica. Un continente che un tempo dominava l’80% del globo con imperi e industrie rivoluzionarie oggi appare invecchiato e stanco. Secondo la Deutsche Bank, le economie europee sono praticamente ferme da 15 anni: la Germania, locomotiva del continente, è cresciuta di appena l’1% dal 2017, mentre gli Stati Uniti hanno messo a segno un +19% – e qui è meglio non nominare l’Italia ferma allo zero virgola… In ogni caso, la quota dell’Europa nell’economia mondiale è crollata dal 33% al 23% negli ultimi due decenni.
Il confronto con gli Stati Uniti è impietoso: il PIL pro capite americano ha raggiunto gli 86.000 dollari, contro i 56.000 tedeschi e i 53.000 britannici, differenze evidenti soprattutto nella vita quotidiana dei cittadini: più spazio abitativo, tecnologie domestiche diffuse e un benessere materiale sempre più lontano dagli standard europei. Certamente l’Europa conserva alcuni primati: sistemi sanitari più accessibili, maggiore equilibrio sociale, città ancora tra le più vivibili del pianeta, ma i nodi strutturali non si sciolgono: il modello di crescita basato sulle esportazioni manifatturiere è stato messo in crisi dalle guerre commerciali, dall’aggressività mercantilista della Cina e dall’invasione russa dell’Ucraina che ha fatto esplodere i prezzi dell’energia, ovvero dall’incapacità della nostra classe dirigente di fronteggiare le sfide globali.
Allo stesso tempo, tasse elevate e regolamentazioni sempre più fitte hanno frenato investimenti e innovazione, hanno scoraggiato nuove imprese e rallentato la modernizzazione delle infrastrutture. Il risultato è un’Europa ormai privata non solo peso economico ma anche di influenza politica oltre che di credibilità internazionale. Forse le voci sui salvataggi FMI non vanno prese alla lettera, più che un reale rischio sarebbero un campanello d’allarme, tuttavia è proprio questo il punto: Francia e Regno Unito, assieme a buona parte del Vecchio Continente, sembrano sperare nell’intervento di un arbitro esterno per costringere i governi ad affrontare riforme dolorose che altrimenti verrebbero rinviate, una resa simbolica al corso degli eventi.
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