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14 Ottobre 2024

USA 2024-4 Le ricette economiche di Trump

Nel frattempo che gli Stati Uniti si fumino, in Ucraina e Medioriente,  le ultime riserve di credibilità che hanno a livello planetario in casa continua la campagna elettorale  che si potrebbe definire, parafrasando  Ennio Flaiano, “feroce, aggressiva ma non seria”.

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Credit foto https://lanuovabq.it/it/trump-a-difesa-di-economia-e-posti-di-lavoro

Di Fulvio Rapanà

Nel frattempo che gli Stati Uniti si fumino, in Ucraina e Medioriente,  le ultime riserve di credibilità che hanno a livello planetario in casa continua la campagna elettorale  che si potrebbe definire, parafrasando  Ennio Flaiano, “feroce, aggressiva ma non seria”. Trump  bisogna ammetterlo ha messo il turbo nella sonnacchiosa e scontata vita politica del partito unico americano. Ha alzato i toni, estremizzato le invettive e le offese, seminato insinuazioni, acuito le differenze fra le due Americhe   ma nella sostanza non vi è un  progetto politico, economico e sociale nuovo per la società americana . Ambedue i candidasti poco dibattono sulla  scuola, che deve competere con una Cina che sforna 30.000 ingegneri elettronici all’anno, e che con i progetti di reindustrializzazione  dell’economia, portata avanti da Biden, ha necessità di più ingegneri, più tecnici specializzati e operai qualificati. La scuola in una nazione che aspira al primato assoluto tecnologico  dovrebbe stare al primo posto del dibattito politico ma ambedue i candidati, senza particolari differenze, si fermano a ipotizzare più repressione  sulle idee e sulle attività che circolano nei campus. Si dibatte poco sulla sanità su cui la Harris dice pochissimo e  Trump oscilla fra chiudere o ridurre il Medicare. Dovrebbero  invece di copiare il nuovo primo ministro della Gran Bretagna Starmer che ha vinto le elezioni inserendo l’assistenza sanitaria e scolastica in quel “sistema di sicurezza” di cui ogni cittadino britannico deve sapere di potere contare. Trump ha imposto i temi dell’ agenda politico/elettorale sui quali  la Harris e i Democratici sono costretti a confrontarsi . Due sono le proposte  che Trump porta avanti con forza: a)un abbassamento …o un azzeramento delle imposte dirette finanziate con l’aumento dei dazi alle importazioni, generalizzato del 10% e del  60% sulle merci Cinesi;b) espulsione, termine tecnico deportazione, di tutti gli immigrati illegali presenti sul suolo americano. Si tratta di soluzioni  che Trump presenta come separate una dall’altra ma che  in effetti convergono e si intrecciano fra di loro . Sulla prima proposta gli economisti anche di area Repubblicana, concordano sull’evidenza che è una misura del tutto irrealizabile in quanto, pur essendo gli Usa i più voraci importatori del pianeta, l’importo della fiscalità riveniente dai dazi imposti da Trump  sui beni importati ammonterebbero a 225 miliardi di dollari che non potrebbero in alcun modo compensare gli importi regressivi dell’abbattimento o azzeramento delle imposte dirette che attualmente incidono su 2 trilioni di dollari di redditi . Le conseguenze sarebbero disastrose sul bilancio Federale con un ulteriore indebitamento ai 35.000 miliardi di dollari attuali. Gli economisti avvertono su effetti collaterali negativi che derivano da questa manovra sulla fiscalità. Il primo risultato sarebbe un aumento dell’inflazione, se una parte molto rilevanti dei beni che vengono acquistati dai cittadini costa di più, a causa dell’aumento dei dazi, in generale aumenta quello che da noi si chiama “costo della vita” cioè l’inflazione. Trump fa finta di essere convinto che i dazi ricadono sulle aziende che esportano negli Usa ma studi e statistiche confermano che non è così, le tariffe ricadono su quelli che importano o acquistano beni soggetti a dazi. Un antecedente di quanto ipotizzato dagli economisti è già avvenuto con la manovra fatta da Trump nel 2018/2019, che in poco tempo aumentò i dazi sulle importazioni e diminuì le imposte dirette in   misura e nelle dimensioni minore di quella che vorrebbe fare nel secondo mandato, l’esito per i ceti medio e medio bassi, che rappresentano numericamente l’80% della società,  è stato negativo con perdite sia del potere di acquisto che di erosione dei redditi reali con il risultato di avere perso 8 mil. di voti nelle Presidenziali vinte da Biden nel 2020 . A questo risultato socialmente molto negativo vanno aggiunte altri effetti finanziari generali per l’economia. Con l’aumento dell’inflazione la FED sarebbe costretta, come è successo dal 2020 ad oggi, ad alzare i tassi di interesse con conseguente aumento del costo del denaro per famiglie e aziende e di rivalutazione  del dollaro che renderebbe ancora più difficile esportare merci all’estero. L’introduzione dei dazi aumenta le difficoltà delle aziende, che utilizzano in tutto o in parte beni importati, sarebbero costrette a riposizionarsi sul mercato: rinegoziare contratti, riconfigurare le catene di fornitura, ridefinire i listini, fare pressioni lobbistiche per ottenere esenzioni tariffarie, una misura lobbistica  già vista con la precedente amministrazione Trump che ha favorito una serie di settori dell’economia che sono riusciti ad ottenere di importare senza i dazi. Ulteriore benzina sparsa in un contesto politico di scontro fra le due fazioni del partito unico americano. Ma le ripercussioni delle politiche economiche di Trump  si estenderebbero  anche all’occupazione con perdita di posti di lavoro essendo alcuni settori più esposti di altri all’aumento delle tariffe  o alle eventuali ritorsioni straniere compresi i partner alleati. Su quest’ultimo risultato  i geopolitici più degli economisti pongono l’accento di eventuali  ulteriori effetti negativi. Gli Usa  importano da 156 nazioni al mondo ed esportano in 148 paesi che con l’imposizione lineare dei dazi Usa sulle merci importate  potrebbero decidere  anche loro di imporre dazi  come ritorsione alle merci importate dagli Usa con conseguente difficoltà per le aziende ad esportare. Questa variabile risulterebbe  più rilevante nei confronti  degli attuali alleati  Europa, Giappone, Corea, Australia ecc., che passerebbero da partner a controparti di una guerra commerciale, che subendo dazi alle loro esportazioni negli Usa sarebbero costretti, anche senza volerlo, a imporrebbe dazi alle importazioni dagli Usa. Una situazione geopolitica e strategica con gli alleati molto complicata alla cui ricucitura, rispetto alla precedente amministrazione Trump, Biden ha dedicato una parte rilevante delle sue energie.                                                                                                           

                                   Trump non inserisce nella ricetta fiscale, ma in quella razziale e di ordine pubblico,  il fattore immigrazione  promettendo “la più grande deportazione interna della storia americana” e mettendo nel mirino fra i 15 e i 20 milioni di immigrati di cui si stima che 8,3 mil sarebbero forza lavoro. Una soluzione  simile è stata già fatta dagli americani nel 1956 quando Eisenhower deportò 1,3 mln di immigrati. Le conseguenze non potettero essere quantificate in quanto a quel tempo non c’erano gli strumenti scientifici e i sistemi software per calcolarne gli effetti sull’economia, si constatò un aumento artificioso dell’inflazione negli anni dal ‘57 al ‘61 dal 0,7%  al 0,3% sui punti base. Ora gli economisti hanno ben altri strumenti per calcolare fattori come l’immigrazione sull’economia reale. Il Peterson Institute ha pubblicato uno studio articolato e approfondito  sul fattore immigrazione “Restrizioni migratorie e danni all’economia statunitense” a firma di economisti di alto profilo: Michael A. Clemens , Warwick J. McKibbin , Jonathan Portes (King’s College London) e Adam S. Posen (PIIE), in cui hanno certificando che se la deportazione riguardasse  1,3 mil. di lavoratori si produrrebbe una riduzione del Pil dell’ 1,2% fino al 2028 e perdita di posti di lavoro dell’0,8%; se invece l’espulsione riguardasse tutti e gli 8 mil. di lavoratori immigrati il Pil scenderebbe del 7,4% fino al 2028 e si perderebbero 5,7% di posti di lavoro. Queste perdite sia di Pil che di posti di lavoro riguarderebbero maggiormente i settori agricoli e manufatturiero che Trump considera la parte rilevante della sua base elettorale. Trump vuole convincere l’elettorato che gli Stati Uniti si stanno impoverendo perché vittime di stranieri perfidi che complottano e rubano la ricchezza dell’America. Propone come soluzione di raddrizzare il sistema attraverso politiche protezionistiche commerciali di isolazionismo e di deportazione in massa di forza lavoro. A conti fatti, da economisti a tutti i livelli,  si certifica che queste politiche nel tempo funzionerebbero come fattori regressivi dell’economia. La promessa è di far pagare agli stranieri, alleati e   immigranti, i deficit degli Stati Uniti ma è certificato che a soffrire il peggioramento della situazione economica complessiva sarebbero una parte molto rilevante delle famiglie e delle aziende, si salverebbero e avrebbero benefici solo quei pochi che già attualmente detengono una fetta molto rilevante della ricchezza nazionale.

Ovviamente il “sistema America” non è Trump né la Harris né  è rappresentato dall’inquilino di turno dalla Casa Bianca  che per costituzione conta soprattutto nella  politica estera mentre  la politica interna sono gestite dal Congresso, per le competenze federali, e i singoli stati  che hanno notevoli autonomia su molte competenze. Ma chi comanda realmente negli Stati Uniti è discorso complesso e articolato che necessita di una riflessione per un prossimo articolo.

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